Mia madre è un fiume: i Premi del 2011

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21/02/11

Donatella Di Pietrantonio : Le case delle bambole non devono crollare




Corriere della Sera : Un racconto di Donatella Di Pietrantonio

Il racconto

Mio marito mi ripeteva quanto era pericoloso quello che volevo fare. Lui dorme nella caserma della Guardia di Finanza
La casa fa angolo tra via della Mezzaluna e via Arco del Capro, con l’ingresso sulla Mezzaluna, al civico trentasette. Nei quartieri più in basso il vento sceso dal colle di Roio, nostro dirimpettaio, imbocca i vicoli a suo favore e li risale, viene a soffiarci sulle facciate il freddo portato dall’alto e odori vaghi della pineta d’inverno.
Quando prende forza, sbatte la persiana del vicino che non ha il fermo, e ha già spezzato i primi listelli. Di giorno ho guardato i frammenti caduti sui sanpietrini, schegge di legno chiaro a contrasto con il verde muschio della vernice. La notte conto i colpi sul muro, mentre fingo di aspettare il sonno sotto il piumone, dentro la tuta di felpa. Calcolo quanto vento avremo questo inverno e quanto impiegherà a rompere tutte le stecche e lasciare i cardini inutili. Ma può darsi che il vicino torni in tempo, e metta il fermo. È difficile, non si è più visto.
Non chiudo gli scuri e non carico la sveglia, il sonno mi atterra dopo le 3,32 e il rumore che mi richiama, con il sereno, è il vetro della finestra di fronte al letto che si dilata al sole. Una leggera esplosione, come prima. La pioggia che batte no, non mi strappa alla profondità dell’assenza, anzi l’allunga fino a una misteriosa soglia di luce del medio mattino, che dal cielo grigio riesce a trapassare le palpebre. Allora sento gocciolare l’acqua che si infiltra nelle falle del tetto, nelle crepe del soffitto. Mi alzo e indosso la solita maglia pesante sulla tuta, poi faccio colazione con i crackers che ho messo la sera sul comodino e qualche sorso dalla bottiglia di acqua minerale, per farli scendere.
Vado di là, sui pioli della scala di alluminio che mi cala al piano terra. Mio marito mi ha aiutata a portarla qui, camminavamo per vicoli tenendola io davanti e lui dietro, con l’orecchio molto teso ai passi di un’eventuale pattuglia. Mi ripeteva quanto era pericoloso e assurdo quello che volevo fare. Gli sentivo la voce rompersi a tratti e resistere al pianto. Non ho pensato nemmeno per un attimo di appoggiare la mia estremità della scala e andare a consolarlo lì dietro l’ultimo piolo.
Lui dorme alla caserma della Guardia di Finanza, a Coppito, dove siamo stati assegnati, ho provato anch’io qualche notte, per accontentarlo. Ha ripreso il lavoro di ricercatore all’Università, s’impegna per gli studenti rimasti, prepara le lezioni. Lo ammiro per questo, almeno quanto lo disprezzo.
Ci incontriamo in una tavola calda di viale della Croce Rossa, dove hanno riaperto alcuni locali, pranziamo insieme guardandoci sopra i piatti e i bicchieri, con le bocche chiuse a masticare. Se non mi sente o vede per più di due giorni viene qui, affrontando i pericoli che mi rimprovera di sfidare, le pattuglie e il crollo della nostra mezza casa rimasta in piedi nel centro storico chiuso agli abitanti. Dall’ingresso sale i gradini fino alla camera e poi scende la scala in alluminio. Il gesto di aprire una porta per passare da una stanza all’altra dello stesso piano non gli è più consentito.
Oggi mi chiede come sto, se ho mangiato. Avverto il peso del suo sguardo che valuta la magrezza delle gambe attraverso i pantaloni informi della tuta. Mi fermo per rispondere, batto uno contro l’altro i guanti antinfortunistici che mi ha dato lui all’inizio. Vola la polvere, li tolgo, poi anche quelli di lana che indosso sotto. Sgranchisco le dita con movimenti di ragno gigante. Gli dico che ieri ho fatto un giro in macchina e mi sono comprata il pane di Peppinella, mozzarelle, affettati. Se vuole gli preparo un panino. Allora due e ce li mangiamo insieme, propone. D’accordo, ma non ho molto tempo, quando viene buio lavorare con la sola lampada del casco diventa difficile. 
Gli consiglio di stare attento a dove si siede, ci sono dei ferri qua e là. Mi guarda toccare il cibo con le mani non lavate, io che le sciacquavo cento volte al giorno. Cerca sul mio viso un segno d’imbarazzo che non trova. Loda la bontà del pane e del prosciutto casereccio, tenta di coinvolgermi in una conversazione. Mi suggerisce di arrivare fin qui da un’altra parte, un accesso alla zona rossa che non viene quasi mai controllato. Elenca le vie da percorrere e lo interrompo, lì c’è la casa delle bambole, dico. Non capisce, gli descrivo i tre piani parzialmente crollati dove si vedono frazioni di stanze con i letti, gli arredi, le scarpe sportive appaiate, l’armadio con l’anta spalancata e i vestiti appesi alle grucce, il paesaggio alla parete storto di molti gradi, in bagno il bidet sull’orlo esatto del pavimento rimasto, i barattoli di pelati sullo scaffale della dispensa, il miele, il riso che non scuoce, si legge la marca. Come nella casa delle bambole, si vede tutto quello che c’è dentro. Quattro morti, l’intera famiglia, hanno avuto fortuna, concludo. Cambia discorso.
Alla fine beve da un bicchiere di plastica e non può fare ameno di chiedermi se l’ho trovato. Gli arriva la polvere che si alza dai capelli mentre scuoto la testa. Sicura di voler continuare, domanda con quel filo di ansia teso nella voce. Accenno di sì e allargo il braccio a mostrargli il mucchio di macerie già passate al vaglio. Quasi la metà, ormai, stimo tra me e me. È così importante, insiste. Stavolta non rispondo, infilo i guanti di lana e sopra quelli da lavoro, ricomincio. Faccio appena eco al suo ciao, mentre sposto un mattone.
È sceso un gelo, adesso. Si resiste solo impegnando i muscoli. Il freddo sembra compattare i calcinacci, si oppongono alle mie mani, si stringono tra di loro e agli ultimi odori della cucina, il polpettone del cinque aprile a cena, i carciofi alla giudia, patate fritte per i bambini. La signora del trentatré preparava certi ragù la domenica. Al ritorno dalla passeggiata mattutina in centro, appena superata la chiesa di San Pietro, ci accoglievano volatili le carni miste in cottura, potevamo riconoscere l’agnello, e il pomodoro che bolliva a fuoco basso. Passando sotto il balcone dove intanto stendeva lenzuola di un altro profumo, alzavo gli occhi interrogativi e lei elencava gli ospiti a pranzo e le portate, per i nipoti menu a parte. Si preoccupava con un sorriso delle novantanove campane di mezzogiorno che cominciavano a suonare. Non so dov’è, non nell’elenco dei morti, forse in un albergo della costa a mangiare cibo in serie. Senza di lei la strada è inodore.
Dopo le prime scosse dell’autunno, casa nostra era stata valutata da un ingegnere e l’aveva ritenuta sicura. Aveva stilato una relazione dettagliata. Figuriamoci, ha resistito al terremoto del Settecento, ci tranquillizzava scendendo le scale. Così avevamo deciso di restare e che bastava dormire accampati nel lettone, era tempo di tornare alla normalità. Ho convinto io marito e bimbi. Mi fidavo, della città, della terra e degli uomini.
Ora è tutta buia la città, fin dalle cinque del pomeriggio. So che qualcuno viene a dormire nella zona rossa, come me. Per vedere dipendiamo dalla benevolenza della luna, dal gioco di una nuvola che la copre e la scopre.
Un uomo è stato preso per strada e denunciato. Intorno alla Fontana Luminosa parcheggiano in cerchio le camionette dei carabinieri e certi grossi mezzi blindati simili a testuggini. Da lì scendono e lì ritornano i nostri guardiani. Noi pochi fantasmi sappiamo come evitarli, dove nasconderci al primo sopraggiungere di passi. Una sera aspettavo che si allontanassero, spiando dall’interno di un portone socchiuso. Li credevo in due, invece era uno solo e senza divisa, un abitante. Sono uscita facendo rumore di proposito e ho acceso la pila, gliel’ho puntata sui piedi per non accecarlo. Ha fatto lo stesso con me. Ci siamo guardati in quella scarsa luce dal basso, poi un cenno leggero del capo e ognuno nella sua direzione. Mi piacerebbe incontrarlo di nuovo, ma forse era venuto quella volta sola.
Colapietra vive nella sua casa con i gatti, i libri, gli studi storici. Ha finto di seguire con la vecchia valigia i salvatori convinti di portarlo al sicuro e all’ultimo momento li ha chiusi fuori. Non hanno avuto il coraggio di sfondare e prelevarlo a forza, i protettori civili.
Sono rimasti in pochi a pattugliare la città. Non ce n’è più bisogno. Gli edifici sono stati puntellati o abbattuti, la carne putrefatta dei congelatori bruciata, i quartieri derattizzati. Le erbe infestanti cresciute tra i sanpietrini, davanti alle porte, non danno fastidio a nessuno. Ogni tanto decidono di riaprire una piazza o una strada, procedono alle demolizioni necessarie a consentirvi l’accesso.
Certi giorni vado a guardarmi la chiesa di Santa Maria Paganica, la grandiosa opera di messa in sicurezza, la struttura del vuoto disegnata con i tubi Innocenti a indicare al futuro dove posare la cupola da ricostruire.
La scorsa settimana mio marito mi ha convinto ad accompagnarlo a una manifestazione. Seguiva attento i discorsi dal palco, eravamo proprio lì sotto, al centro. Alla terza vicinanza al nostro dramma umano del tizio con il microfono, ho detto sottovoce torno subito e ho cominciato ad attraversare la folla in diagonale. Non sono riuscita ad arrivare all’angolo in fondo alla piazza, ho vomitato tra la gente che si è aperta a cerchio e guardava. Mi sono pulita la bocca con il dorso della mano e sono andata via, gli schizzi sulle scarpe e sull’orlo dei pantaloni. Sono tornata a casa senza badare a non farmi vedere. Ho ripreso il lavoro con lo stomaco libero, contenta.
Uno di questi giorni lo trovo, è sicuro, sono già uscite tante di quelle cose. Alzando una pietra con il guanto vedrò l’angolo di un foglio piegato in quattro, un po’ sciupato, certo. Dopo averlo scoperto del tutto, lo prenderò tra le dita e gli soffierò via la polvere prima di aprirlo e rileggerlo, dove dice in tecnico che la casa è solida in tutte le sue strutture e possiamo abitarci. Non è colpa mia, è scritto lì. Non poteva crollare, nemmeno la cameretta sopra la cucina.
Terrò il foglio sempre con me, nella tasca della tuta e non ci sarà più bisogno di nascondermi. Resto qui, con la perizia.
Donatella Di Pietrantonio
21 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Nel nome della madre: articolo del Corriere della Sera